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Era di domenica...
Riflessioni al termine della Fase 1 che non sarà mai un "liberi tutti"
Giovinazzo - domenica 3 maggio 2020
06.00
Era di domenica, in un tempo fermo. In un tempo senza tempo, in cui i giorni erano tutti uguali e non c'era gioia.
Era di domenica, in un tempo fermo, in cui la gente non circolava, non ci si incontrava in piazza e gli orologi della vita scioperavano, senza far girare le lancette.
Strade deserte, auto parcheggiate da settimane, eppure c'erano un sole pieno e temperature miti che solo questi angoli d'Italia sanno proporre in primavera. Già, la primavera mai arrivata, mai sbocciata nelle nostre teste, rubata da un balcone, da una terrazza, da una finestra.
Il tempo era senza tempo, perché non c'eravamo noi ad animare questa cittadina sospesa tra uliveti e mare. Solo le campane delle chiese ci richiamavano ad una parvenza di normalità, ma il loro essere vuote in diretta streaming ci faceva ripiombare nel nostro ovattato esistere.
Era così in quella primavera 2020, in cui i silenzi erano legge e le voci erano poche, distanti, discrete, contenute nelle quattro mura di casa nostra. Ci provavamo ad essere allegri, con rara musica dai balconi, con le foto sui social network di pranzi lauti ed inversamente proporzionali alle nostre vite sgonfiatesi d'un tratto, come quei palloncini che non erano riusciti a volare durante le feste patronali spensierate. Ma non ci riuscivamo fino in fondo.
Era di domenica, ma noi non ce ne accorgevamo perché doveva essere così, per legge, per etica, per paura. Giusta paura di un nemico che camminò a lungo al nostro fianco e che sventammo solo imparando una espressione bizzarra: "distanziamento sociale". Perché il problema non era il virus, ma gli uomini che lo facevano arrivare da una parte all'altra, inconsapevoli portatori di morte e malanni.
Imparammo a cantare dai balconi, riscoprimmo il senso patrio quando della patria non ci interessavamo da decenni, maltrattandola e non riconoscendole, anzi calpestandone spesso quella bellezza che droni, venuti dal cielo, portarono nelle nostre case catturando finalmente la nostra attenzione, abituati come eravamo stati nella vita precedente a camminare a testa bassa senza accorgerci del mare, delle pietre e dei monumenti che ci rendevano eredi di una storia che non meritavamo.
Quello che proponiamo oggi è uno scatto che entrerà di diritto negli archivi di questa cittadina, opera della macchina fotografica e della sapienza artistica di Giuseppe Palmiotto, capace di cristallizzare in una istantanea quel tempo senza tempo che pareva essersi riproposto a noi da una pellicola anni '70 su grandi catastrofi.
Eravamo questi, cioè non c'eravamo, per nostra angoscia e per nostra fortuna.
E per un po' dovremo continuare a lasciare spazio solo a chi sarà costretto a lavorare e dovremo continuare ad uscire solo per strette necessità alimentari, sanitarie e per raggiungere congiunti. Non è un "liberi tutti" quello che parte domani. È solo la prova che ci meritiamo ancora una vita con ritmi scanditi e a colori.
Dimenticarlo significherebbe tornare in quel tempo senza tempo, questa volta in uno scatto in bianco e nero.
Era di domenica, in un tempo fermo, in cui la gente non circolava, non ci si incontrava in piazza e gli orologi della vita scioperavano, senza far girare le lancette.
Strade deserte, auto parcheggiate da settimane, eppure c'erano un sole pieno e temperature miti che solo questi angoli d'Italia sanno proporre in primavera. Già, la primavera mai arrivata, mai sbocciata nelle nostre teste, rubata da un balcone, da una terrazza, da una finestra.
Il tempo era senza tempo, perché non c'eravamo noi ad animare questa cittadina sospesa tra uliveti e mare. Solo le campane delle chiese ci richiamavano ad una parvenza di normalità, ma il loro essere vuote in diretta streaming ci faceva ripiombare nel nostro ovattato esistere.
Era così in quella primavera 2020, in cui i silenzi erano legge e le voci erano poche, distanti, discrete, contenute nelle quattro mura di casa nostra. Ci provavamo ad essere allegri, con rara musica dai balconi, con le foto sui social network di pranzi lauti ed inversamente proporzionali alle nostre vite sgonfiatesi d'un tratto, come quei palloncini che non erano riusciti a volare durante le feste patronali spensierate. Ma non ci riuscivamo fino in fondo.
Era di domenica, ma noi non ce ne accorgevamo perché doveva essere così, per legge, per etica, per paura. Giusta paura di un nemico che camminò a lungo al nostro fianco e che sventammo solo imparando una espressione bizzarra: "distanziamento sociale". Perché il problema non era il virus, ma gli uomini che lo facevano arrivare da una parte all'altra, inconsapevoli portatori di morte e malanni.
Imparammo a cantare dai balconi, riscoprimmo il senso patrio quando della patria non ci interessavamo da decenni, maltrattandola e non riconoscendole, anzi calpestandone spesso quella bellezza che droni, venuti dal cielo, portarono nelle nostre case catturando finalmente la nostra attenzione, abituati come eravamo stati nella vita precedente a camminare a testa bassa senza accorgerci del mare, delle pietre e dei monumenti che ci rendevano eredi di una storia che non meritavamo.
Quello che proponiamo oggi è uno scatto che entrerà di diritto negli archivi di questa cittadina, opera della macchina fotografica e della sapienza artistica di Giuseppe Palmiotto, capace di cristallizzare in una istantanea quel tempo senza tempo che pareva essersi riproposto a noi da una pellicola anni '70 su grandi catastrofi.
Eravamo questi, cioè non c'eravamo, per nostra angoscia e per nostra fortuna.
E per un po' dovremo continuare a lasciare spazio solo a chi sarà costretto a lavorare e dovremo continuare ad uscire solo per strette necessità alimentari, sanitarie e per raggiungere congiunti. Non è un "liberi tutti" quello che parte domani. È solo la prova che ci meritiamo ancora una vita con ritmi scanditi e a colori.
Dimenticarlo significherebbe tornare in quel tempo senza tempo, questa volta in uno scatto in bianco e nero.